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Un incentivo a te, un incentivo a me...

di Marco Alfieri

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4 ottobre 2009

«Se andiamo avanti così, senza incentivi, in questo paese rimarrà solo la Fiat…». Arnaldo D. ha un'azienda meccanica nel padovano che impiega 50 addetti. Esporta in tutto il mondo, automotive ed elettrodomestici. «Stiamo sopravvivendo nella speranza che riparta il mercato», abbozza trafelato. «A questo punto prendo quel poco lavoro guardando solo al prezzo, non contano più i 40 anni di storia che hai alle spalle. Né possiamo contare su uno stato che privilegia i grandi gruppi industriali con potere di ricatto».

«Le piccole imprese chiedono un aiuto per sopravvivere in questi mesi durissimi - rincara Lorenza M.,titolare di un caseificio con 9 collaboratori nel Reggiano - il governo risponde che non ci sono fondi, ma qualcuno ha fatto i calcoli di quello che lo stato ha regalato all'Alitalia? E alla Fiat? Soldi per aprire impianti, incentivi per vendere le auto, crediti dalle banche che poi sono state costrette a diventarne azioniste. Messi insieme, questi fondi fanno molto più di una finanziaria. Forse sarebbe stato meglio utilizzarli per le Pmi…». Dice Lorenza M. tutto d'un fiato.

Coriandoli dalla crisi. Tanti imprenditori, ognuno con le proprie piccole e grandi revanche contro quei pochi campioni nazionali rimasti in piedi in Italia. La paura e la speranza di uscire finalmente dal pantano. Molti di loro scelgono l'anonimato, meglio non esporsi. Andrea Pellegrini della Color-Dec Italy di Camaiore rivendica, invece, la voglia di non gettare la spugna: «Amministro una piccola azienda con 30 occupati e un fatturato di 10 milioni, siamo leader nelle tecnologie per la realizzazione di emblemi con applicazioni per moda e automotive e vendiamo impianti e materie prime in 40 paesi del mondo». Spiega che «la crisi si fa sentire ma ci sono anche aziende che ce la fanno e hanno pagato un premio di produzione a tutti».
L'artigiano mobiliere di Pordenone, Stefano Banchi, senza aver mai letto le teorie contro lo stato degli anarco-capitalisti americani, maledice i governi «perché sono tutti uguali e per inerzia e ricatti burocratici finiscono sempre a dare i soldi ai grandi». Too big to fail. Troppo grossi per fallire, è la solita storia. In realtà «è il più grande alibi per non cambiare mai - continua - spolpando chi davvero produce e ha tenuto in piedi il paese in questi anni di debito pubblico alle stelle».

È indubbio che il recente annuncio di incentivi bis alla rottamazione accordati al settore auto, dunque al Lingotto, da parte di un governo amico del piccolo blocco dei produttori per senso comune e peso elettorale, sta facendo sobbalzare l'intera Padania laburista. La grande piattaforma a capitalismo diffuso che corre da Torino a Trieste scendendo in Emilia e sulla dorsale adriatica fino alle Marche, lungo quella Terza Italia studiata trent'anni fa da economisti come Giorgio Fuà e sociologi come Arnaldo Bagnasco.

Se prendiamo i settori produttivi del made in Italy (meccanica, gomma-plastica, tessile-abbigliamento, prodotti per la casa), sono tutti in apnea. «Spira un refolo di ripresa ma si continua ad arrancare e i posti di lavoro si perderanno ancora per un po', nonostante in questi anni l'industria si sia in parte ristrutturata, incorporando maggior valore aggiunto», si legge nei report post agostani che circolano nelle grandi province manifatturiere. Solo che questo non basta. Bisogna acchiappare la ripresa aumentando l'utilizzo degli impianti rimasti per sei mesi in ghiaccio, recuperando profitti da reinvestire in nuovi macchinari. «Bisogna crescere in dimensione e aumentare la produttività, certo, ma per farlo, sul breve ci vogliono gli incentivi».

«Perché a loro sì e a noi no? L'economia italiana non è fatta solo dall'industria dell'auto», si lamenta Michele Tronconi da Fagnano Olona, varesotto laborioso, titolare della omonima azienda e presidente di Sistema Moda Italia, la filiera del tessile-abbigliamento-pelli-cuoio-calzature-occhiali: «un comparto che nel 2008 ha dato lavoro a oltre 500mila addetti contro i 174mila del settore auto contribuendo con 10 miliardi di euro all'attivo della bilancia commerciale», precisa Tronconi. «Eppure non abbiamo mai beneficiato di aiuti, indispensabili per il mantenimento dell'integrità della filiera».

Da un rapido giro tra le territoriali di Confindustria, le associazioni artigiani e la galassia Api, in effetti si leva un solo coro: «Siamo stufi che ci sia sempre qualcuno più uguale di altri». È un mantra omogeneo, come se gli incentivi ai "soliti noti" eliminassero magicamente rivalità e competitizioni inveterate.
«Le domande da porsi sono tre», attacca Romi G., imprenditrice trevigiana nel settore calzaturiero: «Come mai chi ci governa continua a concedere incentivi ad aziende come Fiat che re-investono all'estero? Come possono risolvere il problema occupazionale in Italia se creano lavoro in Polonia?». Siamo il paese della postilla in piccolo in fondo al contratto ma, continua Romi, «non riusciamo a partorire una legge in cui sia scritto ti concedo l'incentivo, ma produci in Italia».

  CONTINUA ...»

4 ottobre 2009
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